Pubblicato su politicadomani Num 85 - Novembre 2008

Uno scandalo moderno
Fino a 19mila volte di più

Si allarga la forbice fra le paghe stratosferiche di manager e C.E.O. e quelle medie del comune lavoratore statunitense che con le tasse sostiene in modo sostanziale questi compensi. Uno studio fa il punto della situazione e suggerisce qualche rimedio

di Maria Mezzina

L’anno scorso negli Stati Uniti ognuno dei C.E.O. (Cheaf  Executive Officer) delle 500 maggiori compagnie americane si è messo in tasca una media di 10,5 milioni di dollari, 344 volte la paga media di un lavoratore e 866 volte la paga minima. I compensi dei manager nel settore bancario e degli investimenti finanziari hanno raggiunto cifre enormemente più alte: i manager delle 50 istituzioni finanziarie più grandi hanno guadagnato, in media, 588 milioni di dollari ciascuno, pari a 19mila volte la paga di un dipendente.
Questi iperpagati manager sono gli stessi che hanno portato al collasso il sistema finanziario americano, con conseguenze sull’economia del pianeta di cui siamo ancora lontani dal valutare la reale portata.
Ma accade di peggio. Uno studio pubblicato negli USA il 5 agosto scorso, a cura dell’Institute for Policy Studies (IPS) e della associazione United for a Fair Economy (UFE), mostra come il denaro intascato da manager e C.E.O. sia sborsato dai contribuenti americani per una cifra superiore a più del doppio di quanto lo Stato federale abbia speso nel 2007 per l’educazione dei bambini disabili. L’eccesso, anche se non nelle stesse proporzioni, riguarda anche i benefici indiretti di cui godono le compagnie che stipulano con il governo contratti per la fornitura di merci e servizi: i manager di queste compagnie percepiscono paghe che sono “solo” 100 volte la paga media di un lavoratore.
Esiste al Congresso un progetto di legge che mira a mettere un freno a questo gigantesco “pozzo San Patrizio”, ma è rimasto lì fermo, né c’è speranza che possa essere ripreso prima che la nuova amministrazione si sia insediata alla Casa Bianca.
Guadagnano di più - lo hanno ampiamente dimostrato gli studi fatti in passato dalle due organizzazioni - i manager che riducono di più i posti di lavoro, quelli che spremono di più il governo ottenendo contratti più remunerativi nel settore difesa, quelli del settore energie che riescono a far aumentare il costo del carburante alle pompe. Guadagnano molto di più dei manager delle grandi imprese commerciali e dell’alta finanza.
Non solo, le leggi federali riconoscono vantaggi fiscali proprio a quelle compagnie che pagano di più i loro manager, grazie a norme che, pur avendo in origine delle giustificazioni, sono state estese e distorte fino all’inverosimile dagli avvocati e i lobbisti superpagati di queste compagnie. Tutto ciò a danno della gente comune che paga un eccesso di tasse pari ad oltre 20 miliardi di dollari l’anno. La cifra è largamente inferiore a quella di fatto sborsata dai contribuenti, si legge nel rapporto, perché non tiene conto di altri fattori quali l’inflazione generata da queste distorsioni e i premi dei manager legati alla maggiore “performance” delle loro compagnie. Vale a dire: avvocati e lobbisti spremono meglio il governo, la compagnia guadagna di più, una percentuale dei maggiori guadagni va nelle tasche dei manager, il contribuente paga.
Il fenomeno è di vecchia data, ma è esploso in tutta la sua enormità a partire dai primi anni ’80. La ragione è, sostengono gli autori della ricerca, che il potere economico si è concentrato nelle mani di pochi e che questo processo ha spazzato via tutti quegli strumenti, a cominciare dai sindacati, pensati e messi in atto a metà del secolo scorso che, fino ad allora, avevano garantito controllo ed equità nel sistema economico americano. Mezzo secolo fa oltre un terzo dei lavoratori del settore privato aderiva al sindacato. Le trattative fra i lavoratori e i loro datori di lavoro ebbero l’effetto di stabilire regole certe riguardanti le paghe dei lavoratori nei vari settori, e di tenere a freno i compensi dei manager, sia dove c’erano sia dove non c’erano lavoratori organizzati. Oggi, invece, solo il 7,4% dei lavoratori nel settore privato è iscritto al sindacato (i dati sono del Bureau of Labor Statistics). Quindi, nella maggior parte delle compagnie americane i top manager non debbono affrontare nessuna sfida istituzionale da parte dei lavoratori, cosa che li lascia liberi di aumentarsi i compensi fino ad un livello che solo una generazione fa sarebbe parso di una avidità vergognosa. Inoltre, recenti ricerche accademiche hanno dimostrato che dove c’è la presenza del sindacato all’interno di una compagnia, i compensi dei top manager sono il 20% in meno di quelli dei manager delle istituzioni o delle imprese dove non c’è alcun controllo sindacale. variano di 200 dollari anche le paghe dei lavoratori: 863 dollari a settimana per chi lavora nelle compagnie sindacalizzate e 663 dollari per chi sta invece in quelle non sindacalizzate.
Se questo trend crescesse - ma ci sono buone ragioni per credere che l’attuale crisi aiuti a fermarlo, se non a invertirlo - il gap fra manager e lavoratori aumenterebbe ancora di più perché le industrie più economicamente floride pagano ai loro CEO somme di gran lunga superiori a quelle percepite dai manager di imprese che stanno perdendo posti di lavoro.
Ovviamente non basta parlare di sindacalizzazione dei lavoratori, occorre favorirla approvando progetti di legge cha aiutino i lavoratori ad esercitare il loro diritto ad organizzarsi e a contrattare il salario in modo collettivo. Un diritto, in Italia, acquisito da tempo, e tuttavia negli ultimi anni minato sia dall’esterno delle forze sindacali sia dall’interno.

Per approfondire:
Rapporto Executive Excess 2008: How Average Taxpayers Subsidize Runaway Pay, pubblicato dall'Institute for Policy Studies di Washington e United for Fair Economy, 25 agosto 2008 (in inglese).
www.ips-dc.org e www.faireconomy.org

 

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